Archivio mensile gennaio 2020

27 gennaio 2020 – Prima puntata: “Una seconda opportunità” di Araldo Gennaro Caparco

Una seconda opportunità.

Le strade erano deserte, finalmente riuscivamo a tornare a casa alle quattro e mezzo, il vento soffiava forte e la temperatura era sui due gradi, ma noi tre, liberi dal lavoro, eravamo spensierati e tra una battuta e un’altra, venivo accompagnato perche ero il più piccolo e poi loro due raggiungevano le loro case poco distanti dalla mia, avevamo solo due passioni all’epoca, la musica e la cucina.

Mi chiamo Rino e sono con i miei due amici Dino e Ludo, già Ludo, nome imprecisato, un dono dei suoi genitori, convinti della nascita di una femminuccia per tutta la durata della gravidanza avevano illusa la nonna paterna promettendo la continuità del suo nome, Ludovica, quindi quando tra lo stupore di tutti, nacque un bel maschietto, per non deluderla lo vollero chiamare Ludo, un nome da lui mai accettato e divenne un marchio per tutta la vita.

Eravamo di ritorno dopo esserci esibiti in un pub, Dino era compositore e la voce solista e suonava la chitarra, Ludo si alternava al basso e al pianoforte ed infine io ero il batterista e alle volte sassofonista, suonavamo delle canzoni degli anni ’70/80, arrangiate a modo nostro.

Durante la settimana, di giorno studiavamo e la sera lavoravamo in un ristorante, io e Ludo come lavapiatti e Dino invece alle fritture, ci pagavano a giornate e con quella paghetta io e Dino riuscivamo a comprarci qualcosa di vestiario, Ludo non ne aveva bisogno, ma volentieri, tra le discussioni con la sua famiglia, ci accompagnava, all’epoca ero sedicenne, mentre Ludo era diciottenne e Dino ventenne.

Un sabato sera, la nostra fortuna, non ne eravamo a conoscenza, ma tra il pubblico era presente una persona in cerca di talenti e il giorno successivo, mi ricordo molto bene, come se fosse oggi, Dino

– Ti passiamo a prendere tra poco!

Ancora assonnato, guardai la sveglia sul comodino, erano le dieci del mattino

– Per cosa?

– Dobbiamo andare al locale, vogliono farci un provino, passo al garage di Ludo, prendo la nostra attrezzatura e ti passiamo a prendere tra un’ora, vestiti!

Ero meravigliato, un provino? A noi?

Nemmeno il tempo di rispondere riattaccò, mio padre mi vide come una meteora correre in bagno

– Ma dove vai a quest’ora?

Non risposi, il tempo di farmi una doccia, vestirmi, raccontare della telefonata a mio padre, suonò il campanello, erano loro!

E questo fu l’inizio della fine!

Fummo travolti dal successo, quella persona in questione era proprietario di un’etichetta musicale la SingSong, ci scritturò e con le canzoni scritte da Dino fummo lanciati nel mondo della musica, il nostro complesso in pochi mesi raggiunse un successo insperato, il nostro nome:

The boys band!

I soldi arrivarono in breve tempo, i nostri dischi andavano a ruba ed anche la nostra vita cambiò in un amen, nel bene e nel male, furono cinque anni di continui tour, presenza nelle radio principali e poi anche in televisione, eravamo giovani, incoscienti,  increduli …

…e così, ci perdemmo!

Imparai la lingua inglese, ma quando si dice che il successo da alla testa, non è un modo di dire, ma verità assoluta, oltre ai soldi, alle ragazze che ci saltavano addosso, arrivarono anche le droghe, prima leggere, poi sempre più pesanti, eravamo sottoposti a stress incalzante, dormivamo poco e male, fui l’unico a rimanere con i piedi ben piantati a terra, anche perché dopo due anni circa di quella vita, persi mio padre per un tumore che raggiunse mia madre, morta dandomi alla luce.

Fu il suo ultimo triste regalo!

Con un aereo dall’Inghilterra, messo a disposizione dalla produzione, lo raggiunsi prima di morire in ospedale tra le mie lacrime e con un filo di voce mi disse

“Ricordati quello che eri prima e cerca di non perderti!”

Mai parole furono più profetiche!

Rimasero così impresse nella mia mente e da allora tutto cambiò, ma per Ludo e Dino purtroppo non andò così, nell’ultimo periodo Dino dovette essere ricoverato più volte per disintossicarsi dalla droga e Ludo subì la sua stessa sorte per l’alcol, la nostra avventura durò otto anni e poi?

Ci perdemmo di vista!

Da allora sono passati cinque anni, venni a conoscenza che Dino lavorava in Inghilterra come Chef in un ristorante di Plymouth e Ludo a Berlino oramai era parte integrante di una comunità di gay, queste furono le ultime notizie dei miei amici.

Quando il complesso si sciolse, mi ritrovai da solo, impiegai molto tempo per disintossicarmi da quell’incredibile successo improvviso e decisi di iscrivermi ad una scuola alberghiera, diventai Chef di partita addetto alla griglia e alle fritture, ero taciturno, mi stavo rinchiudendo sempre di più.

Di quell’incredibile avventura mi rimase solo un anello, era in oro con una placchetta nera in superficie con le nostre iniziali a forma di cuore incrociate, fu un regalo che ci facemmo il primo anno, pezzi unici forgiati da un artigiano olandese, promettendoci di non toglierlo e non cederlo mai a nessuno.

Ed eccomi oggi, quasi trent’enne, con un camper come casa e la mia attività al seguito, un food truck, grande come una roulotte per sei persone, modificato e acquistato a Parma.

Mi ero trasferito a Lecco, avevo lavorato in diversi ristoranti a Novara, Varese e Como, mi volevano bene tutti, ma non mi sentivo soddisfatto, mi piaceva far parte di una brigata, ma non mi piaceva essere un sottoposto, troppe pressioni in cucina e poi non sopportavo l’arroganza degli Chef, avevo messo da parte i soldi guadagnati con la musica e furono quelli che mi salvarono e mi diedero l’opportunità di finire gli studi e…altro!

Una sera uscendo dal ristorante di Como, una folata di vento a mulinello mi travolse,  riuscii a mettermi al riparo e mi ritrovai tra le mani un volantino, era la pubblicità di una Fiera a Parma dove venivano presentati modelli di automezzi adatti per la ristorazione mobile, nuovi e usati, quella notte non riuscii a dormire, ma ero alla ricerca di trovare la mia strada di vita, decisi di visitarla.

E il giorno dopo…

fu la giornata che cambiò la mia vita!

– Come va oggi?

Ero in ospedale, pregavo e la guardavo, com’era bella, nonostante le ecchimosi sul viso diventate viola, se avessi chiuso gli occhi per un attimo, la rivedevo come la prima volta, solare.

Adesso i suoi capelli biondi lunghi scendevano sulla copertina inerti, gli occhi erano chiusi, ma conoscevo bene il loro colore, celesti come il mare, dai documenti della cartella clinica, ero venuto a conoscenza della sua età, trentuno anni, la mia stessa età, era in coma, respira solo con una mascherina e il suo corpo era avvolto in un vestaglia bianca come la neve attaccato a delle macchine che controllavono il suo stato di salute, avevo gli occhi velati dalle lacrime, sentii dei passi, alzai lo sguardo, era Nico il suo datore di lavoro, aveva un’agenzia pubblicitaria e lei aveva accettato di fare da promoter per un food truck di una compagnia inglese, era un brav’uomo, sui sessanta anni, venne alle mie spalle

– Non è stata colpa tua!

Era già passato un mese da allora, ma non riuscivo ancora a capacitarmi, quel giorno mi ero avvicinato a quel padiglione…

… c’era tanta gente alla fiera, bambini urlanti, venditori di ogni cosa, dai food truck fuoriuscivano profumi deliziosi, panini, patatine, sfogliatine, frittelle a ripetizione, fino a quel momento nulla mi aveva colpito, anche perché confesso non ero pienamente cosciente del perché fossi venuto, la giornata era fredda e nonostante i numerosi pannelli radianti accesi per emanare calore sia in basso che in alto, non si poteva passeggiare senza essere ben protetti tra i padiglioni.

La giornata era passata senza nessuna emozione, nulla mi aveva attratto veramente, ero in procinto di allontanarmi dalla fiera, verso una delle uscite, notai un padiglione con i colori inglesi e una doppia bandiera enorme, quella inglese e quella americana, mi era di strada, mi incuriosì e quando mi avvicinai, la prima cosa che mi colpì, fu una ragazza, disinvoltamente vestita solo con una gonna e una camicetta invogliava le persone a visitare lo stand, la vidi batteva i denti, ma nonostante questo aveva un sorriso per tutti, anche per quelli che non rispondevano al suo invito, non so proprio perché lo feci, ma poco distante, c’era un piccolo bar montato su un automezzo, presi due cioccolate bollenti e

– Posso?

Era di spalle, si girò meravigliata

– Cosa?

Poi vide il boccale bollente, colmo di cioccolata con panna che le stavo offrendo

– Ma?

Le sorrisi

– Scusami, ti ho visto che battevi i denti…

Rispose al sorriso, prendendo il boccale

– Grazie, ma ci conosciamo?

– No, ma se è solo per questo, io mi chiamo Rino e tu?

Mi persi nei suoi occhi celesti, mi guardava incuriosita, mi stava analizzando

– Solitamente non sono mai così diretto, ma mi è venuto spontaneo, io qui bardato con cappotto, sciarpa e cappello come tutti qua dentro e tu…

Diventò rossa all’improvviso

– Spogliata?

Abbassai la testa, mi vergognavo, si è vero, l’avevo immaginata così

– …disinvolta!

Risposi…

…e sorridemmo, seguirono dei minuti imbarazzanti, sorseggiammo la bibita calda, mi ringraziò e ci sedemmo nei pressi dell’automezzo

– Mi chiamo Ivvy.

Un perfetto italiano con una inflessione straniera, spontaneamente

– Non sei italiana?

– No, sono irlandese e studio a Londra, il mese scorso ho risposto ad un annuncio di un’agenzia italiana per questo lavoro, il colloquio l’ho fatto a Londra, cercavano una ragazza inglese che conoscesse bene l’italiano, sai, questa Fiera è internazionale e la società produttrice di questi automezzi, voleva essere certa di raggiungere il maggior numero di persone di tutte le nazionalità, amo l’Italia e quindi ho colto l’occasione, mi veniva pagato alloggio e vitto per due settimane da trascorrere in Italia, oltre la Fiera, e tu?

Preso alla sprovvista con un grumo di cioccolata alla gola bollente

– Cosa?

Ero goffo, rosso dallo sforzo di ingollare quel grumo bollente

– Come mai sei qui?

Riacquistato un minimo di normalità mi resi conto che aspettava, ma non avevo la risposta e così sinceramente

– Non lo so!

Non dimenticherò mai la sua espressione, era sbigottita, ma non aggiunse nulla, fummo distolti da una sirena

– La fiera sta per chiudere, riapre domani, devo andare, mettere in ordine, scusami, grazie per la cioccolata.

E si alzò, feci appena in tempo

– Ci vediamo domani?

Si girò contenta

– Se vuoi, io sarò qui!

Sorrisi

– A domani allora!

Quella notte non riuscivo a chiudere gli occhi, senza vederla, dormii pochissimo in attesa dell’alba, il giorno dopo non potetti andare di mattina, fui chiamato da un avvocato per chiudere il rapporto di lavoro con l’ultimo ristorante, non potevo non andare, dovevano liquidarmi e quei soldi mi servivano, solo nel pomeriggio inoltrato riuscii a definire la situazione con il mio ex datore di lavoro e accettai pur di andarmene via una somma lievemente inferiore a quella che mi doveva, dopo due ore d’auto finalmente entrai nella fiera e mi recai immediatamente a quel padiglione, eccola, era la, stava parlando con una persona, mi vide, sorrise e i suoi occhi si illuminarono, aspettai poco distante e poi quando si allontanarono

– Pensavo che non saresti più venuto!

Fu sincera e io stupito e contento, aveva una sciarpa bianca al collo…

…segue il 3 febbraio 2020…

Sogni.

“Qualunque fiore tu sia,
quando verrà il tuo tempo, sboccerai.
Prima di allora
una lunga e fredda notte potrà passare.
Anche dai sogni della notte trarrai forza e nutrimento.
Perciò sii paziente verso quanto ti accade
e curati e amati
senza paragonarti
o voler essere un altro fiore,
perché non esiste fiore migliore di quello
che si apre nella pienezza di ciò che è.
E quando ciò accadrà,
potrai scoprire
che andavi sognando
di essere un fiore
che aveva da fiorire.”

DAISAKU IKEDA

(scrittore, studioso (studioso del buddismo))

Sogni.

Sognare è un atto di pura immaginazione, che attesta in tutti gli uomini un potere creativo, che se fosse disponibile in veglia, farebbe di ogni uomo un Dante o Shakespeare.
(HF Hedge)

Sogni.

“…Se tu puoi sognare e non abbandonarti ai sogni;

se tu puoi pensare e non perderti nei pensieri…

Se riesci a occupare il minuto inesorabile dando valore a ogni istante che passa, tua è la terra e tutto ciò che è in essa…”

Rudyard Kipling

Sogni d’Oro.

Perché auguriamo “Sogni d’Oro”?

Perché si dice “sogni d’oro” prima di andare a dormire?

Ci sono diverse risposte alla domanda, ma ne abbiamo scelte due che ci sembravano le più sensate:

  • potrebbe essere la traduzione non proprio alla lettera di un modo di dire latino, che augurava di “fare sogni preziosi”;
  • altri ritengono sia invece un’usanza che arriva dall’Oriente, dalla Corea in particolare, dove i monaci auguravano “sogni d’oro” alle coppie appena sposate perché l’oro, simbolo di prosperità, potesse portare loro dei figli in salute.
  • Quel che è certo è che resta tuttora un augurio a trascorrere una notte serena, allietata da sogni piacevoli. In senso ironico, invece, “sogni d’oro!” si utilizza come esclamazione nei confronti di una persona distratta, lenta, con la testa… tra le nuvole.

Sogni.

Ho sognato di volare
tante volte in una
una volta in tante,
leggera sopra i tetti
con un sospiro di gioia nera
posandomi sui cornicioni
seduta in bilico su un comignolo
quanto quanto quanto
ho camminato sulle vie
ariose dell’orizzonte
fra nuvole salate e raggi di sole
un gabbiano dal becco aguzzo
un passero dalle piume amare
erano le sole compagnie
di una coscienza addormentata
vorrei sapere volare
ancora in sogno e ancora,
come una rondine,
da una tegola all’altra
e poi sputare sulle teste
dei passanti e ridere
della loro sorpresa, piove?
O sono lagrime di un dio ammalato?
volo ancora, ma nelle tregue del sonno
il piede non più leggero
scivola via, una mano si aggrappa
alla grondaia che scappa
vorrei volando volare
e riempire di allegrie
le spine del buio»

Dacia Maraini, “ho sognato di volare”, da “Notti e sogni”, in “Se amando troppo – Poesie”, Rizzoli, Piccola Biblioteca LA SCALA, 1998